L’amore perduto
Qualche tempo prima di lasciarci, Primo Levi scriveva all’amico Mario Rigoni Stern:
«Se vivessi con te sull’altipiano non avrei problemi, mi metterei gli sci da fondo e via. Ma qui è diverso; malgrado la crisi, ci sono auto dappertutto, ferme o in moto, e solo per uscire dalla città ci vuole un’ora di lotta e di pazienza».
È la dichiarazione di resa di un torinese speciale, uno dei più lucidi figli di questa città, che ha molto amato le montagne e in gioventù si è forgiato su rocce e nevi assaggiando “la carne dell’orso” con il compagno di avventure Sandro Delmastro. Colpisce che proprio quell’automobile che avrebbe dovuto avvicinare le Alpi alla città sia diventata motivo di ostacolo, prima ancora psicologico che fisico, tra Torino e le sue montagne, onnipresenti al fondo di ogni viale e di ogni prospettiva. Levi ci ha detto che l’automobile, nata come mezzo di comunicazione e scambio, ha isolato i torinesi in una dimensione sempre più urbana, assimilandoli alla cultura industriale e allontanandoli da quella consuetudine alpina che era scolpita nel codice genetico delle famiglie borghesi, nell’eredità etica della Resistenza, nella cultura cattolica di Frassati e della Giovane Montagna, nella passione laica delle associazioni escursionistiche e alpinistiche di formazione proletaria. Tutto questo è sfumato nel corso del Novecento, come quando cala il vento del nord e i profili limpidi delle Alpi si impastano con il latte del cielo per scomparire, infine, dietro i fumi grigi della città.
Il disinteresse verso le Alpi è un fatto recente e sostanzialmente antistorico per Torino e il Piemonte. Basti pensare al nome della Regione – Pié monte, al piede della montagna – e ai primi abitanti della pianura e della collina torinese, i Taurini, che come ha scritto Anna Ferrari sul terzo numero di “Turin” dovevano il nome a Taur (monte) ed erano gli “abitanti dei monti”. Niente tori, dunque, ma montagne. Anche la storia moderna conferma che il distratto sguardo alpino novecentesco è una novità per Torino, unica metropoli al mondo a essere circondata come un golfo di pianura da quattrocento chilometri di montagne, dai quasi quattromila metri del Monviso agli oltre quattromila del Gran Paradiso e del Monte Rosa, con la vela bianca del Rocciamelone che si alza al vento nel bel mezzo della scogliera. Fino alla seconda metà dell’Ottocento le Alpi sono sempre state al centro dei pensieri e dei viaggi dei torinesi, non alla periferia. Per secoli, prima di diventare uno sfondo da cartolina, le montagne hanno rappresentato il cuore geografico del Ducato di Savoia e poi del Regno di Sardegna, un collante di rocce e stili di vita che, pur separandole fisicamente, univa Chambéry e Torino sotto un solo governo, aggregando la cultura dominante e anche le aspirazioni minoritarie, eresie comprese. Sui valichi alpini transitavano monaci ed eretici, ambulanti e commercianti, truppe militari e funzionari di stato, milizie di guerra e ambasciatori di pace. Attraverso le Alpi passò anche la Sindone, simbolo di fede e potere per i signori della Savoia.
L’unità politica transalpina si rompe alla vigilia dell’Unità d’Italia, che per le regioni a cavallo delle Alpi occidentali significa frattura e divisione. Quando nel 1860 Cavour cede Nizza e la Savoia ai francesi in cambio di aiuto diplomatico e militare, di fatto erige un confine dove non c’era mai stato. Secondo la teoria cartesiana dello spartiacque affermatasi in Europa dopo Utrecht («a ogni stato le acque che vi discendono»), diventa “naturale” che la cresta delle Alpi separi i due versanti per destinare a ogni nazione i ghiacciai, i pascoli, le valli, i fiumi, le genti e i sobborghi che le spettano. Ma la natura non c’entrava. L’idea dello spartiacque alpino poteva forse considerarsi “naturale” per i politici e i generali che l’avevano inventata per delimitare e difendere gli stati nazionali, certo non per i pastori e i viaggiatori che attraversavano i valichi, e neppure per la politica di un regno – la Savoia – cresciuto intorno alle montagne.
La storia si è spesso confusa: per esempio, ha argomentato Pietro Crivellaro sullo scorso numero di “Turin”, il Monte Bianco non l’hanno scalato i francesi ma due sudditi del Regno Sardo. Il medico Michel-Gabriel Paccard, indiscusso protagonista dell’ascensione, si era laureato all’Università di Torino ed era tornato a Chamonix senza attraversare alcuna dogana. Allo stesso modo non espatriavano i viandanti e i pellegrini che scavalcavano il Moncenisio, i commercianti che superavano il Piccolo San Bernardo, i pastori che inseguivano l’erba buona oltre il crinale o il giovane che si recava a cercar moglie e fortuna dietro la montagna di casa.
Tutto cambia centocinquant’anni fa, quando i torinesi cominciano a pensare che al di là le Alpi abiti lo straniero. Le cime diventano simbolo di patria e Quintino Sella, ministro del Regno d’Italia, si adopera per scalare il Monviso nel 1863 e strappare il Cervino agli inglesi nel 1865, senza successo. Le montagne non sono più semplici pezzi di roccia che toccano il cielo, tendono a diventare le sentinelle della nazione. Per contro la civiltà alpina, che aveva saputo evolversi armonizzando le ragioni dell’uomo e della natura, s’impoverisce non tanto per le difficoltà oggettive delle valli, quanto perché mutano gli scenari politici e le Alpi subiscono governi sempre più lontani e disinteressati. L’impoverimento e lo spopolamento non sono la “naturale” conseguenza della severità dell’ambiente alpino, con cui i montanari hanno imparato a convivere da secoli; sono piuttosto il risultato dell’isolamento politico ed economico che, anziché correggerle con politiche adeguate, contribuisce a esaltare le negatività ambientali favorendo l’emigrazione. L’olocausto della civiltà alpina si consuma nella seconda metà del Novecento, quando Nuto Revelli – nelle drammatiche interviste de Il mondo dei vinti – denuncia l’emorragia dei giovani valligiani verso le fabbriche. Con la morte della civiltà rurale tramontano gli scambi tra montagna e città, e viceversa. Finisce un sistema.
Sono queste, in sintesi, le ragioni politiche che hanno prima unito e poi separato Torino e le sue montagne, anche se la scienza, la cultura e le ragioni del cuore sono state più forti della politica e hanno resistito per decenni alla forza centrifuga. Quando Quintino Sella, nell’ottobre del 1863, fonda il Club Alpino al Castello del Valentino riunisce tre anime importanti e vive della città: alpinisti, scienziati e patrioti. In primo luogo il CAI nasce sui valori dell’alpinismo e della montagna, palestra di formazione civile per i giovani che hanno sostituito il moschetto con la piccozza. In secondo luogo ci si riunisce intorno alle scienze, in particolare quelle della terra, una passione che accomuna i fondatori del Club (da valente mineralologo, Sella sa bene che le pavimentazioni e i palazzi di Torino sono pietre delle Alpi, la carne viva della capitale). Infine il CAI cresce nell’ideale della patria, identificando le creste delle montagne con i confini e i simboli del giovane stato. Sarà tutto chiaro nel 1882, quando i figli di Sella e le guide Maquignaz di Valtournenche espugneranno il Dente del Gigante al grido di «Viva l’Italia!», consegnando al Club Alpino e alla nazione l’ultimo scoglio inviolato.
Il CAI non è che uno dei tanti parti torinesi. Anche lo sci è importato a Torino da Adolfo Kind a fine Ottocento, il Club Alpino Accademico nasce in città nel 1904 e segna l’emancipazione degli alpinisti dalle guide valligiane, la Giovane Montagna è fondata nel 1914 da giovani torinesi che intendono fare montagna da buoni cristiani. Il passaggio dalla visione laica e patriottica delle origini allo sguardo cattolico è ben rappresentato dai Frassati. Alfredo, senatore del Regno e fondatore de “La Stampa”, nel 1887 scrive sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” che «le Alpi sono l’ultimo ma invincibile e fortissimo baluardo d’Italia nostra. Vinti al piano, ci rimane ancora una speranza in alto…». Il figlio Pier Giorgio, futuro beato della Chiesa, risponde che le «ascensioni alpine hanno in sé una strana magia, che per quante volte si ripetano e per quanto si assomiglino tra loro, non vengono mai a tedio, nel modo stesso che mai ci tedia l’eterna ed uguale vicenda della primavera…» (Cogne, settembre 1924). Disgraziatamente il giovane Frassati muore di lì a poco per un attacco di poliomelite, senza riuscire a scalare il Cervino dei suoi sogni.
Anche il socialismo umanitario torinese è legato alle Alpi. Edmondo De Amicis – padre dell’ottimo scalatore Ugo – è vicino agli ideali del Club Alpino e dall’albergo Giomein ai piedi del Cervino benedice l’alpinismo come una speciale religione laica. Nel 1903, al pranzo del Congresso degli alpinisti italiani, l’autore di Cuore declama: «A voi egregi commensali, alla gioventù e alla fanciullezza che voi educate ed educherete all’amor virile e gentile delle Alpi, affettuosamente auguro fortuna in ogni forma d’ascensione della vita!». Gli fa eco lo scrittore e alpinista torinese Guido Rey, con la famosa dichiarazione «credetti, e credo, la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede».
Nel Ventennio, mentre il fascismo incoraggia la maschia pratica della montagna e organizza l’educazione alpina di massa, le famiglie antifasciste torinesi usano in modo inverso l’ideale dell’alpe. Secondo Vittorio Foa «esiste un’altra retorica, forse più sottile, per cui la montagna diventa elemento distintivo di gente che si considera diversa dagli altri perché non cerca né la mondanità né l’esibizione». La montagna di certa borghesia torinese è incompatibile con il fascismo per una ragione di stile, come testimonia Natalia Ginzburg nel Lessico famigliare alludendo al padre Giuseppe Levi:
«Non era consentito, nelle gite in montagna, né cognac né zucchero a quadretti: essendo questa, lui diceva, “roba da negri”; e non era consentito fermarsi negli châlet, essendo una negritura… Nelle gite, noi con le nostre scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte, col sole che batteva a picco sulla nostra testa in sudore, guardavamo con invidia “i negri” che andavan su leggeri in scarpette da tennis…».
Per Massimo Mila, nel Capitolo primo e ultimo di un’autobiografia alpina, si tratta di un’iniziazione materna:
«La persona che mi avviò alla montagna fu quella che più tardi avrebbe dato qualunque cosa per allontanarmene, cioè mia madre. Era giovane e robusta, nel 1920, quando una mattina sì e una no, durante la villeggiatura alpina a Coazze, mi tirava giù dal letto di buon’ora e dopo avermi somministrato il caffè-latte con l’uovo sbattuto mi guidava in lunghe galoppate mattutine…».
Poi viene la Resistenza e le Alpi diventano, anche fisicamente, un rifugio di libertà. Per comprendere i valori della montagna ridisegnata dai partigiani basta leggere il ricordo di Primo Levi in memoria dell’amico Delmastro, ucciso dai nazifascisti:
«Sandro portava all’occorrenza trenta chili di sacco, ma di solito andava senza: gli bastavano le tasche, con dentro verdura, un pezzo di pane, un coltellino, qualche volta la guida del CAI, tutta sbertucciata… Non la portava perché ci credesse: anzi, per la ragione opposta. La rifiutava perché la sentiva come un vincolo; non solo, ma come una creatura bastarda, un ibrido detestabile di neve e roccia con carta…».
Sandro Delmastro reca i caratteri del resistente: uomo libero e ribelle alle regole; camminatore con l’istinto della montagna; cercatore senza vincoli, in povertà di mezzi e pienezza di conoscenza. Molti alpinisti hanno incarnato questi valori negli anni del secondo dopoguerra, e molti intellettuali vi si sono identificati. Per lungo tempo, prima che le Alpi tornassero a essere solo un terreno di gioco, “andare in montagna” era molto più che camminare, scalare o sciare. Significava aderire a un pensiero.
Soprattutto tre uomini hanno segnato l’alpinismo subalpino del Novecento avanzato: Giusto Gervasutti, Guido Rossa e Gian Piero Motti. Il friulano Gervasutti ha portato l’arte della scalata dolomitica sui gelidi terreni delle Alpi occidentali, aprendo itinerari memorabili e diventando un caposcuola. L’alpinista Rossa, operaio e sindacalista, ha risvegliato nei torinesi l’amore per la trasgressione e il libero pensiero, prima di trasferirsi a Genova e venire barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse. Motti, nato nell’anno in cui Gervasutti cadeva sul Mont Blanc du Tacul, ha portato avanti le intuizioni di Rossa dando vita al Nuovo Mattino, un soffio d’aria fresca nella palude retorica della montagna eroica.
Motti e altri intellettuali come Piero Dematteis, Marziano Di Maio e Paolo Gobetti creano nel 1970 la Rivista della Montagna, da cui si staccano più tardi i fondatori di “Alp”. Gli anni settanta e ottanta del Novecento palesano la primavera dell’editoria alpina torinese e italiana, insieme ad altre grandi intuizioni come le Comunità montane – indimenticabile l’opera di Edoardo Martinengo – e le politiche dei parchi, in buona parte montani.
Nel frattempo la metropoli guarda alle montagne secondo logiche di “conquista”, occupando con le fabbriche le basse valli o esportando la città stessa in quota, come accade in alta Valle di Susa dopo l’invenzione di Sestriere e dei distretti della neve. La montagna diventa un prolungamento della metropoli industriale, e questo – paradossalmente – approfondisce il fossato tra Alpi e città. La contrapposizione, esasperata dal ventennale conflitto tra “valligiani” e “cittadini” sulla questione del treno ad alta velocità, resta irrisolta anche dopo la ghiotta occasione olimpica, che porta reddito e buona immagine alla città di Torino ma utilizza ancora una volta le Alpi come un domaine separato, una specie di stadio d’altura, lasciando pesanti eredità ambientali e scarsi indirizzi progettuali. Negli ultimi anni, infine, ci è toccato assistere alla fine delle Comunità montane, alla chiusura delle due storiche riviste alpine e a un crudo ridimensionamento delle risorse e delle strategie per i parchi: è chiaro che il rapporto tra Torino e le sue montagne è tutto da reinventare.
Se dopo Schengen e l’apertura delle frontiere le Alpi possono nuovamente proporsi come la spina dorsale europea, superando l’anacronistico limite dei confini nazionali, anche un altro significato di “confine” è ormai superato dai fatti: è quel limite invisibile che separa la montagna dalla pianura, o la cosiddetta cultura alpina da quella urbana. Quel confine non esiste più perché questo mondo è uno solo, ormai, egualmente afflitto dalla crisi economica e dalla disoccupazione.
I rapporti tra città e montagna vanno riletti non come scontro tra presente e passato, ma come incontro di un mondo (un tempo) piano e sicuro con un altro più ripido, incerto, sperimentale, che proprio in funzione delle sue fragilità può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del tempo, un altro modo di pensare lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato alla qualità della vita.
Enrico Camanni
Articolo gentilmente concesso dalla rivista “Turin”, n. 5, luglio 2013
Veramente grazie ad Enrico Camanni e a Dislivelli per questo bellissimo contributo sui rapporti tra Torino e le sue Alpi, e in generale tra città e montagna. Devo dire che non ho mai sentito così lontane le mie amate montagne come vivendo nel centro della città di Torino negli ultimi vent’anni. La città è ripiegata su se stessa e sulla valorizzazione delle sue indubbie bellezze architettoniche, e non invita ad andare a visitare le montagne che la circondano, quasi uno scenario dipinto per render meno triste e monotona la città piuttosto che luoghi di vita e di storia, da valorizzare tanto quanto i musei, le residenze e i palazzi storici di Torino. La penuria di autobus e treni tra Torino e le sue valli ne è testimonianza.
Grazie ancora per questa ricca riflessione!