Dal Cervino a Cervino: breve storia del cinema di montagna
Il “cinema di montagna” nel corso dei decenni ha trovato un pubblico di appassionati, una rete di festival internazionali e l’attenzione intermittente del cinema grande. Il giornalista di Repubblica Leonardo Bizzarro indaga i rapporti tra cinema e montagna.
In principio fu il Cervino. Erano passati appena tredici anni dall’invenzione dei fratelli Lumière e nemmeno mezzo secolo dalla salita di Hudson & Whymper & Co., quando un anonimo alpinista si trascinò sulle pareti della “gran becca” una cinepresa, lasciandoci i primi fotogrammi da una vetta delle Alpi. Era il 1908 e secondo alcune storiografie nacque così il “cinema di montagna”. Se tale può essere definito un genere per il sol fatto di essere girato lassù, come fosse western qualsiasi film realizzato fra il Texas e lo Utah e non esistessero “topoi” e personaggi ben definiti a caratterizzarlo.
Comunque lo vogliamo chiamare, o non chiamare, il “cinema di montagna” nel corso dei decenni ha trovato un pubblico di appassionati, una rete di festival internazionali – a cominciare nel 1952 da quello di Trento, il primo e tuttora il più importante –, l’attenzione intermittente del cinema grande, si tratti di kolossal come “Cliffhanger”, con un muscolare e poco credibile Sylvester Stallone, o di più meditati prodotti sull’esempio di “Cinque giorni un’estate”, in cui protagonista è Sean Connery, membro dell’Alpine Club perfettamente calato nella parte.
Ma anche rimanendo a quelli che più propriamente possiamo dire film di montagna, resoconti in pellicola di imprese o descrizioni di paesaggi delle terre alte, troviamo tra i pionieri un nome noto agli alpinisti, anzi due: Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, di cui Vittorio Sella, grande fotografo biellese, filma la spedizione del 1909 “Sul tetto del mondo”, al K2 e sul ghiacciaio del Baltoro, con risultati strepitosi e soluzioni tecniche all’avanguardia. Tra le altre, una sorta di anticipazione delle riprese su carrello, escogitata imbarcando la macchina da presa su una zattera – una banalità apparentemente, ma all’epoca non lo era per nulla – oppure l’“effetto speciale” di una panoramica della catena del Karakorum che in realtà è la ripresa delle sue foto appese in tondo alle pareti della casa di Biella.
Quando le montagne si trasformano, da “terreno di gioco” degli alpinisti a teatro del primo conflitto che coinvolge il mondo, anche il cinema si adegua. E se Luca Comerio è capace di registrare la guerra con l’occhio distaccato del documentarista, coraggioso come i fotoreporter in prima linea che oggi sono visti come eroi, nel 1916 gli schermi anticipano quel cinema di propaganda che con la seconda guerra mondiale e poi con il Vietnam diventerà parte integrante della macchina bellica. E’ “Maciste alpino” dei torinesi Luigi Romano Borgnetto e Luigi Maggi a immortalare la figura del personaggio cui presta i muscoli Bartolomeo Pagano, il superman che da solo sgomina intere file dell’esercito nemico.
Un modello che non sarà così diverso nella serie di titoli diretti e interpretati di lì a poco da Luis Trenker, gli unici, a rigore, che davvero si possono definire compiutamente “cinema di montagna”. Guida alpina, musicista, architetto, attore, regista, sceneggiatore, scrittore, alpinista e sciatore, Trenker fa di sé un monumento che rimane a tutt’oggi ineguagliabile, ma le sue pellicole, alcune almeno, non hanno perso freschezza, tanto che “La grande conquista”, nelle due versioni del 1928 e del 1937, è stata riproposta più volte la scorsa estate nell’ambito dei festeggiamenti dei 150 dalla conquista della più cinegenica delle vette (a proposito, perfino le litografie di Gustave Doré della vittoria e della tragedia del Cervino nel 1865 sono a ben vedere perfette anticipazioni di una ripresa cinematografica).
Leonardo Bizzaro
Maciste alpino (Itala Film, 1916) – frammento 1 from Cineteca MNC on Vimeo.